Mario Tamponi Zurück

Il rumore della città

…le formiche e la filosofia del silenzio

Come i battiti del cuore e il respiro. La città gli aveva dato alla testa. Abele viveva al secondo piano di una palazzina su una delle arterie principali. In tempi record si era abituato al frastuono della musica e dei giovani dal bar-sport di sotto, allo schiamazzo delle prostitute e dei magnacci dal marciapiede fino a notte alta. Si era rassegnato ai televisori a tutto volume dei vicini, al latrato dei cani dall’appartamento accanto, ai litigi della coppia del piano di sopra che culminavano quasi sempre in urla strazianti con lancio di bicchieri e vasellame. Come una calamità naturale aveva accettato anche il sibilo della metropolitana dalle viscere della terra che a intervalli regolari faceva vibrare mobili e sopramobili; e il boato degli aerei a bassa quota in atterraggio verso l’aeroporto vicino. Più difficile gli era stato assueffarsi al semaforo di fronte e al traffico attorno alla sua intermittenza colorata: macchine che sfrecciavano profittando della linea verde, macchine che frenando facevano fischiare le gomme fino all’orlo dell’impatto, macchine che ripartendo a tutto gas sembravano voler recuperare il tempo perduto. Una bolgia simile l’aveva vista solo nelle piste di collaudo di veicoli e pneumatici e nelle prove di formula 1. Ma col tempo anche quel fracasso si assestò nella psiche. Come i battiti cardiaci, il respiro, le funzioni del cervello. Il semaforo col suo traffico era diventato un organo vitale di Abele. Quando lavorava alla scrivania egli percepiva, senza distrarsi, ogni singolo autobus, autotreno, fuoriserie, utilitaria e motorino spaccatimpani. Il frastuono iniziale si era articolato nel subcosciente in rumori distinti, come frammenti dell’unica sinfonia della strada e della vita. Quando Abele andava in vacanza era come se gli strappassero quell’organo. Nella tranquilla casetta di montagna, lontano dalla sinfonia, non riusciva a concentrarsi, a leggere un giallo o la cronaca sportiva, a prendere sonno. Leniva lo strazio lasciando in ogni stanza, anche nel bagno e in giardino, televisori sempre accesi su diversi programmi. Ma erano pur sempre un surrogato e le torture dell’inferno si mitigavano al più nelle pene del purgatorio. Per fortuna dopo un paio di settimane poteva rientrare in città a ricongiungersi con l’organo. E dopo qualche giorno di convalescenza la vita ridiventava normale. Ma arrivò il peggio. Una mattina, senza preavviso, il Comune avviò sulla strada i lavori di ristrutturazione della rete fognaria, deviò il traffico e disattivò il semaforo. Allontanandosi, i rumori dei veicoli diventarono soffici e uniformi; e Abele sprofondò in crisi isteriche, che cercò di alleviare con sonniferi e barbiturici. Presto perse anche la speranza che i lavori si potessero concludere in tempi ragionevoli e, nel panico, si sfogò contro il menefreghismo del Comune verso i bisogni dei cittadini! Cercò invano un altro appartamento in prossimità di un semaforo con le medesime caratteristiche. Per disperazione si decise poi a ripiegare sull’esatto contrario: un alloggio in campagna per una cura di “disintossicazione”. Glielo aveva raccomandato l’analista con un ragionamento logico: “Se si perde un organo senza possibilità di rimpiazzarlo, bisogna pur cercare di sopravvivere facendone a meno!” Ma separarsi anche dagli altri rumori della città era come sottoporsi alla castrazione totale. Lo fece rassegnato a tutto. Nella verginità della natura. Con la sua specializzazione in biologia cinetica il trasloco non gli creò almeno problemi professionali. Anzi. Aveva dedicato lo studio degli ultimi otto anni alle articolazioni delle zampette posteriori della formica arabica. Le sue pubblicazioni scientifiche sull’argomento avevano offerto interessanti spunti di applicazione a laboratori di arti artificiali, alla robotica industriale e persino all’aeronautica militare. In campagna la presenza di altri tipi di formiche gli avrebbe persino consentito di ampliare a dismisura l’orizzonte della ricerca. La nuova abitazione era una casetta nella verginità della natura, in un prato incolto al margine di un bosco con predominanza di betulle. Questi alberi slanciati dalla corteccia argentata e dai rami pendenti tranquillizzavano come guardiani affidabili; il tripudio di foglie aguzze e seghettate li raggruppava sotto un’unica chioma, come di un immenso riccio, mansueto. Per raggiungere il villaggio più vicino Abele faceva a meno della macchina; per le provviste e servizi di ogni genere c’erano i venditori ambulanti che passavano ogni tanto. Riprendendo lo studio delle formiche e comparando le arabiche con le congolesi, che con l’edera avevano invaso i muri di cinta, si era concesso la spregiudicata libertà di spostarsi dalle zampette alle vibrazioni dell’addome. E nel rumore prodotto dal suo tamburellare sul suolo e dallo strofinìo dei due segmenti del peziolo ne individuò il linguaggio. Applicò un frammento di membrana elettrofonica sulla congolese più robusta, che chiamò Tom, e con un’antenna e un amplificatore portò dentro casa quel tam tam simile al ritmo dei riti africani. Ma si trattava pur sempre di un monologo. Applicò quindi la membrana anche a un’altra formica amica di Tom, che chiamò Tim. Col dialogo capì quanto differenziati e raffinati fossero i presunti colpi di tamburo: le vibrazioni ampie o secche secondo i casi, le tonalità melodiche o metalliche, la ricca gamma di note e silenzi, intervallati, nella forma di botta e risposta. Non erano solo segnali e richiami, ma anche domande e commenti; esprimevano sorpresa, impazienza, ira, consolazione, piacere. Solo raramente l’interlocutore di Tom era Tim; per lo più erano gruppi o l’intera comunità. Abele non riuscì a resistere alla tentazione e così aumentò il numero delle formiche da intercettare e nella casetta di campagna entrò il clamore della piazza – proveniente giorno e notte da molteplici sentieri e tane. Con tutti i rumori di sfondo: degli ordini gerarchici attorno alla regina, dell’agitarsi e dell’incedere senza sosta, degli sforzi nel trasportare pesi impossibili. Alle loro voci si attorcigliavano quelle degli ospiti nei nidi, dei coleotteri ad esempio, che si nutrivano dei rifiuti delle formiche e in cambio offrivano umori zuccherini più dolci del miele. In Abele si assottigliò la nostalgia della città e dell’organo perduto. Gli altri suoni della natura, che prima gli sembravano il ritmo del silenzio, divennero rumori interessanti. Il frinire delle cicale giungeva compatto come da un esercito mimetizzato nel bosco e schierato a battaglia. Ma una cosa era sentirle nel mucchio, un’altra coglierne le individualità e interpretarne i messaggi trasmessi dallo strofinìo delle ali trasparenti. Abele applicò a parecchie di loro – tutte di sesso maschile perchè più loquaci – la solita membrana elettrofonica e introdusse in casa le loro serenate sdolcinate per conquistare le femmine, gli avvertimenti striduli verso i mille intrusi nel territorio, le invettive contro i rivali, che al corpo a corpo preferivano cimentarsi nella guerra delle onde sonore. Impossibile non occuparsi degli uccelli di ogni forma e colore che si offrivano a fargli compagnia con moine civettuole e canti polifonici! Ad alcuni Abele applicò l’anello con la cimice elettronica; la portavano con la vanità di donne che ostentino orecchini con cristalli di zaffiro e diamante. Attraverso il linguaggio egli penetrò nei loro sentimenti: di genitori, di seduttori, di amanti, di pettegoli, di ciarlatani. Ascoltò la gazzarra dei nidi, lo schiamazzo dei voli col fiato grosso e le penne che battevano l’aria, gli strilli che accompagnavano i decolli ripidi o le discese in picchiata. Interessanti i dialoghi misti: di fringuelli con rane, di caprimulgi con grilli, di merli che interferivano nei battibecchi di lucertole con scarafaggi. Tra speci diverse i suoni si semplificavano come tra persone di varie nazionalità che comunichino balbettando la stessa lingua straniera. Abele non aveva cani, galline, conigli o altri animali domestici, tranne un gatto, nero come la notte. Gli bastava la fauna della foresta, più bizzarra della fantasia. Non solo volpi, scoiattoli, lepri, ricci, topi, rospi, lucertole. Anche mosche e zanzare, vespe e api, apolli e saturnie, grilli e libellule, coccinelle e cervi volanti, lucciole e mantidi, scarabei e cetonie, scarafaggi e blatte, cimici e forfecchie, fillossere e bombi. Grazie alla collaudata tecnica di amplificazione si interessava soprattutto di ronzii e sussurri, quasi per convincersi che il rumore è dappertutto e che per coglierlo basta tendergli l’orecchio. Il suo era teso in tutte le direzioni, come quello del gatto. E andava a stanare le voci dove il gatto orientava insistentemente i suoi padiglioni immensi, come recettori dell’invisibile. Così scoprì che anche i vegetali fanno rumore. Applicò sensori sulle betulle e sentì scorrere la linfa come un’anima che nutre e disseta; soprattutto a primavera, prima che spuntino le foglie. Sentì il crepitìo dell’erba e dei fiori che sbocciano: le pulsazioni della crescita, ma anche la sensibilità diffusa. Colse la tenerezza degli alberi verso chi li ama e lo schock verso chi li ferisce o abbatte. Percepì che le piante fiutano persino le intenzioni altrui nei pensieri e nell’adrenalina dei sentimenti. Tutti quei rumori, combinati, riproducevano nella casa di Abele una polifonia non meno intensa della sinfonia più metallica della città. Nel diario di quei giorni annotava: “Non è possibile sfuggire al rumore, neppure scappando nello spazio. Perchè lì, in mancanza del resto, il battito discreto delle cellule e dei pensieri risuonerebbe come tocchi di campane a martello.” E nelle riflessioni conclusive: “Il silenzio come mancanza di rumore non esiste.” Filtrando i suoni Abele intercettò anche quelli prodotti dal suo stesso udito e misurandoli li trovò più assordanti di qualsiasi martello pneumatico. Dall’orecchio al cervello il passo fu breve; e nel cervello trovò la vera sede del rumore e del silenzio. Autocontrolli mediante encefalogrammi ed esercizi di concentrazione gli rivelarono che “lo stress e i grandi conflitti psichici sorgono quando l’emisfero frontale e sinistro prevale su quello profondo e destro, cioè quando l’iperattività intellettuale dell’io reprime la vita intuitiva ed emozionale – in altre parole, quando il rumore prodotto dal primo emisfero sovrasta il silenzio del secondo”. Abele dedusse la necessità di coltivare l’armonia cerebrale, concedendo al silenzio lo stesso diritto di cittadinanza del rumore: “Solo se l’uno e l’altro convivono è possibile salvare l’integrità dell’uomo e la sua stessa civiltà. È destinata all’autodistruzione una civiltà che col rumore uccide il silenzio, col virtuale il reale, con la cultura l’istinto, con l’intelligenza i sentimenti, con la coscienza la psiche, con l’anima il corpo. Perdere il senso delle origini e la percezione dei limiti è come perdere l’orientamento e il significato dell’esistere.” Abele si era allontanato dalla sua specializzazione sugli arti delle formiche. Sconfinò persino nella filosofia, che lo portò alle stesse conclusioni: “Solo con l’assunzione della morte nella vita si relativizzano la competizione, la carriera, il successo, l’efficienza, il prestigio, la chiacchiera, tutti prodotti del rumore tiranno; e all’interno del rumore prende piede il silenzio.” Con ciò era diventato indifferente per Abele vivere in campagna o in città, e rientrò in città licenziandosi dagli amici animali e vegetali. E nella città gli era diventato indifferente abitare vicino ad un semaforo o solo su una piazza brulicante di gente. In vacanza si attendava su un promontorio col fragore delle acque che si aggomitolavano senza tregua in cavalloni minacciosi ed esplodevano sugli scogli in milioni di cristalli. Là sentiva il silenzio dell’immenso, grazie all’armoniosa coesistenza dei lobi cerebrali e all’alito non rimosso della morte. Per lui il mare era la soglia della trascendenza, l’aldilà, il brivido per cui solo vale la pena di vivere. Per altri villeggianti invece continuava ad essere un banale strumento di rigenerazione fisica, un rumore che si aggiungeva ai tanti dello stress e delle ansie della vita di sempre. Le loro radio assordanti, la loro avidità di tintarella, il loro lembo di spiaggia trasformato nel salotto di casa giungevano alla natura come uno sfregio. Per Abele l’eremo non era sull’altura incolta e dimenticata, un istituto di clausura; anche il mutismo può essere attraversato da rumori micidiali! L’eremo se lo portava dentro, in città e al mare, nel trambusto delle strade e nella sabbia del deserto, nel putiferio della borsa e nella gelida quiete dell’Antartide. Ringiovanire nel tempo. Improvvisamente di Abele perdiamo le tracce a causa della scomparsa di pagine di diario. Lo ritroviamo sei anni dopo felicemente sposato con Alexia e titolare del Laboratorio-Giovani, in sigla “LaGiova”, un’azienda commerciale che egli gestiva anche con l’idealismo del vero operatore sociale. Il filo con le esperienze del passato era diretto: “Come il rumore è il contenitore del silenzio, il tempo lo è dell’esistenza autentica”, sosteneva Abele. E Alexia, diventata l’assistente del Laboratorio, aggiungeva per spiegarne le finalità: “Recuperare tempo non ha molta importanza per chi vive tanto per vivere e, al più, arriva a rassegnarsi: tanto prima o dopo si deve morire! Ha un’importanza relativa anche per chi restar giovane o ringiovanire serve solo per la professione, per i rapporti sociali, per allontanare la morte. Ha un’importanza vitale invece per chi vive nel presente e in esso concentra passato e futuro, storia e speranza, cosmo e società, responsabilità e scelta, cielo e inferno.” E questo era appunto l’approccio di Abele. LaGiova era nata per ridare anni di vita e giovinezza a chi l’andava perdendo o credeva di perderla. Innanzitutto con la denuncia dell’illusione anagrafica. Abele: “È banale considerare l’età delle persone come se l’orologio di ciascuna fosse sincronizzato su un unico orologio esterno, ufficiale, che ne determini la velocità e i ritmi. In realtà l’orologio di ogni persona è autonomo”. LaGiova misurava il tempo biologico di ciascun cliente, con la sorpresa che molte persone risultavano d’un colpo ringiovanite di cinque o dieci anni rispetto al presunto orologio esterno: senza bisogno di lifting per eliminare le rughe, risucchiare il grasso, accorciare il naso, tirar sù il seno. Si trattava di anni realmente guadagnati, perchè spesso sapere e credere è uguale ad essere. “Se credi di essere giovane, sei giovane; se credi di essere vecchio, sei vecchio”, sentenziava Alexia. Ed esemplificava: “Nel possesso di un’opera d’arte è retorica la domanda se sia meglio avere un’opera autentica che tutti credono falsa o un’opera falsa che tutti credono autentica.” Il controllo LaGiova lo effettuava con strumenti sofisticati: misuravano l’elasticità e la vitalità riproduttiva delle cellule, i flussi elettrici dei sistemi motori e nervosi, l’equilibrio psichico nel rapporto tra veglia e sogno, e appunto l’armonia tra i lobi cerebrali, ovvero la presenza del silenzio nella sfera del rumore. Determinata l’età reale, il Laboratorio avviava le pratiche con gli impiegati del Comune, sempre titubanti prima di convalidare la modifica anagrafica con le loro marche da bollo e il timbro ufficiale nel nome di Dio e del popolo sovrano. Gli anni restituiti avevano un effetto salutare sulle persone graziate. Come quando in un difficile processo penale, in cui si prospettavano anni di carcere e di lavori forzati, improvvisamente c’è il colpo di scena con l’assoluzione per non aver commesso il reato o per insufficienza di prove. La grazia decretata da LaGiova generava esplosione di vitalità compressa, effusione affettiva, fecondità, ottimismo, trasporti poetici, voli mistici. Un effetto ben diverso da quello di un’operazione di chirurgia estetica, che può creare crisi d’identità e sensi di colpa per voler nascondere agli altri la propria verità. Il ringiovanimento effettuato da LaGiova era invece un atto liberatorio, il ricongiungimento della vita col proprio tempo reale. Il silenzio recuperato era motore di giovinezza, di amore, di comunicazione, di tolleranza. Con ciò si rallentava il proprio orologio biologico anche per gli anni a venire, reali o presunti. L’invocazione del salmista (Ps. 90, 12): “Insegnaci a ben contare i nostri giorni per acquistare un cuore di saggezza!” era il motto che Abele aveva riportato in caratteri cubitali all’ingresso e nel logo del Laboratorio. Nel monastero tra cielo e terra. Per aggiornare il programma Abele si ritirò per un paio di giorni in un monastero appollaiato su una rupe tra cielo e terra. Ma i suoi abitanti li trovò immersi nel tempo cronologico e nei suoi rumori, che si erano infiltrati col mito della modernità. Essi parlavano di Dio, ma con i parametri dei mass media, della popolarità per l’evangelizzazione, dei diagrammi statistici, del filo diretto con politici e potenti, degli introiti per lasciti e donazioni, della magnificenza di biblioteca e tesori. La gestione era amministrazione aziendale, funzionalità gerarchica, carriera selettiva, solidità patrimoniale; i profitti consentivano di destinare ai poveri parte del superfluo; i piaceri della tavola compensavano i digiuni comandati e l’astinenza della carne. Valori e ideali erano per lo più retti dal verbo avere; persino la vocazione, le virtù, la santità. Ad Abele fu chiaro che i monaci difettavano di silenzio e di giovinezza, del verbo essere. Chiese un colloquio al priore per una proposta di collaborazione, ma col timore di non essere capito. O di essere accusato di presunzione e laicismo. Alla vigilia dell’incontro, nella notte visitata dalle cicale e dai gufi, ebbe un sogno strutturato di sogni. Visse brani di vita dai contorni surreali, ma con la convinzione di averli già vissuti tante altre volte nello stesso ambiente e con le stesse persone. Come se la vicenda di quel sogno fosse il seguito delle vicende dei sogni precedenti, la puntata di una serie. Sospettò che la sensazione della ripetizione fosse un’illusione all’interno di quell’unico sogno secondo il classico gioco di specchi. E pensò, sempre nel sogno, che la stessa illusione dovesse verificarsi anche nella cosiddetta vita cosciente. La mattina, col presunto risveglio, crediamo di riprendere il mondo e la storia del giorno prima; di averla interrotta per la durata della notte. Come nel sogno, la coscienza si conferisce spessore proiettandosi in un passato che non c’è mai stato e in un futuro che non ci sarà. Abele si convinse di vivere un solo giorno di vita cosciente. Un giorno che ovviamente non è un recipiente, una bottiglia in cui si infilano le ore e i minuti via via trascorsi. “Ma è possibile che la vita reale sia così esile?” si chiese avvitandosi convulsamente nel letto e nell’incubo. “È possibile che siano solo effetto di sdoppiamento ottico la casa e le sue cose rassicuranti, la famiglia, gli amici, gli animali e le piante, la città, il lavoro, le vacanze, la carriera, i soldi, le assicurazioni, il prestigio, la politica, il volontariato, gli hobby, la storia personale e quella degli altri?” “Certo che è possibile!”, si rispose nel sogno. “Basta che il passato remoto e prossimo e il futuro siano la rappresentazione scenica del presente, dove unicamente si raccoglie la pesantezza delle cose e si recita l’unico teatro della vita. Il tempo cronologico con le giornate che si susseguono noiose sarebbe vero solo se di quel teatro noi fossimo soltanto comparse, osservatori. Il fatto è che proprio noi siamo – ciascuno per sè – i protagonisti.” All’alba Abele partecipò al mattutino corale dei monaci. Con loro cantò anche il salmo: “Mille anni ai Tuoi occhi sono come il giorno di ieri, ch’è passato. Sono come un sogno, come l’erba che al mattino germoglia. Al mattino fiorisce e germoglia, e la sera è falciata e si secca.” Abele pensò di interpretarlo non nel modo cronologico dei monaci. Era convinto di vivere nell’unico giorno appena nato, folgorato dai raggi del sole ancora basso ad oriente; e che in quel giorno fossero contenuti il bing bang, i quindici miliardi di anni e l’apocalisse del cosmo, il suo ieri e il sogno della notte, la propria scelta per l’essere o il non essere. Pensò anche di aver perso il filo logico per il colloquio col priore. Che fu disdetto per la visita di un politico amico e benefattore, un uomo interiore bramoso di farsi incensare davanti alle telecamere dai suoi beneficiati. Il prodigio delle formiche. Continuando a gestire LaGiova, Abele ritornò al mondo delle formiche. Non più per il richiamo morboso dei rumori o con le manìe dello specialista che spacca il capello senza vedere la testa, l’anima. Se ne occupò per un debito di riconoscenza. Cosa sarebbe stata la sua vita senza le formiche!? Innanzitutto liberò il campo dai molteplici pregiudizi. Nel linguaggio umano la formica è sinonimo di piccolo, di irrilevante. Non è certo un complimento dire che Tizio è “grande come una formica”; che Caio “mangia come una formica”; o che Sempronio “va a passi di formica”. Quando Pinco Pallino dice di volerti “schiacciare come una formica” vorrebbe esprimere la presunta superiorità dell’uomo per la sola ragione di sovrastarla di appena un metro e settanta, centimetro più centimetro meno. Abele smontò questa presunzione evidenziando la relatività fisica di ogni punto di vista. “Se poi si vuole esasperare questa logica, allora è proprio l’uomo a uscirne con le ossa rotte!” Nel confronto – spiegò – l’uomo è perdente perchè nel suo mondo l’individuo è superiore alla specie, e l’individuo umano con le sue dimensioni è fragile, esposto ai tanti acciacchi che conosciamo. La sua vita è breve, lo è anche la sua civiltà; la quasi totalità riposa già nel cimitero della storia. Nel mondo delle formiche invece il soggetto è proprio la specie. E così le formiche di oggi sono quelle delle origini. Hanno milioni di anni. Non è quindi l’uomo a schiacciare la formica; semmai è la formica, immobile sulla riva del fiume, a veder scorrere in continuazione il cadavere dell’uomo. “L’uomo non è il signore del suo pianeta. I veri dominatori sono semmai gli impalpabili virus e batteri; e la formica, certamente meglio dell’uomo, è il punto di congiunzione di macro e microcosmo.” Altro pregiudizio considerato da Abele: le formiche sarebbero esseri primitivi. “È vero l’esatto contrario. Hanno una sagoma più marziana di quella dei dinosauri – scomparsi! – e insieme una eleganza funzionale imitata dai modelli futuristici della meccanica e dell’alta tecnologia, dalla linea della formula 1. Le formiche congiungono preistoria e futuro!” Gli uomini comunicano con simboli e segni convenzionali, e si evolvono con la trasmissione di una cultura settoriale, per pochi, che in gran parte si disperde come un fiume su un deserto di sabbia. Quante civiltà sepolte nel nulla e diventate incomprensibili! Per Abele invece “le formiche comunicano e trasmettono tutto con l’esattezza della chimica e del DNA. Nulla si perde. Nelle formiche di oggi è concentrata e attiva ogni briciola del loro passato comune.” Alexia sottolineava gli aspetti più sociali: “Le formiche congiungono l’ingegno e la laboriosità individuale col bene comune. Evitano gli stratagemmi della furbizia, di cui, volendo, sarebbero capaci. Dicono e fanno la verità. Quando sbagliano lo riconoscono da sole e spontaneamente si sottomettono alle conseguenze. Senza sprecare risorse nella retorica di avvocati e tribunali. La giustizia non è vendetta. È piuttosto un’evidenza condivisa.” Le formiche da osservare Alexia aveva il compito di andare a prenderle in campagna. All’inizio, inesperta com’era, le portava a casa malconce, stordite, talvolta persino sanguinolente. Poi imparò a tagliarsi le unghie e ad afferrarle per il torace con la punta morbida dei polpastrelli. Dopo l’analisi e la descrizione le riportava esattamente dove le aveva prelevate, lasciando accanto un cucchiaino di miele o un mucchietto di carne tritata o un torso di mela, a seconda dei gusti. E col nuovo bottino loro riprendevano il lavoro e i sentieri interrotti dietro la finissima memoria visiva e olfattiva. Abele si concesse il lusso di farsi portare qualche mirmicide dalla Cina, qualche poneride dall’Australia e tre esemplari delle amazzoni; queste avevano la strana abitudine di rubare pupe da altri formicai per schiavizzarle da adulte nei propri. Viaggiavano in aereo in tane artificiali con le leccornie della prima classe. Ad analisi conclusa rifacevano il viaggio a ritroso. Ad Abele non è mai saltato per la testa, per risparmiare sui costi di aereo, di liberarle nelle nostre campagne. Riteneva irresponsabile esporle ai disagi di un clima e di un ambiente diversi. Le formiche faraone, il cui ambiente naturale è l’Asia tropicale, nel nord il caldo se lo vanno a cercare nelle grandi cucine, nelle mense aziendali, negli ospedali, dove non si fanno scrupolo di leccare il sangue dalle ferite dei pazienti. “Ma che colpa ne hanno? La colpa è piuttosto dei turisti che se le sono portate dietro, magari per l’effimero gusto dell’esotico.” La ricerca e le osservazioni di Abele e Alexia indulgevano anche alla loro passione estetica. Per ore stavano a contemplare di ogni esemplare il capoccione levigato con gli occhi a intarsio, le antenne segmentate e multifunzionali, le mandibole arcuate, l’esile torace corazzato, l’addome peziolato, il gastro dove immagazzinano il cibo da distribuire bocca a bocca alla comunità, i corpi peduncolati sede della memoria, i peluzzi fibrillanti. “Gli zoologi suppongono che le nostre formiche siano la risultante dell’unione filogenetica di vespe solitarie con tifidi. Per noi sono solo un miracolo della natura, il vertice della magnificenza dell’essere”, commentavano entrambi con la voce mozza. Gli uomini vivono sulla piatta superficie della terra. Le formiche, avide di sole, lo immagazzinano per trasferirlo nell’intimo stratificato della terra, in direzione dell’altro fuoco primordiale. Laggiù, prima che Dante fantasticasse l’inferno, le formiche c’erano già, da milioni di anni, a congiungere cielo e terra. Abele e Alexia si proponevano di seguirne alcune in una tana particolare sotto un rudere storico dimenticato anche dai turisti. All’imbocco intercettavano da tempo richiami misteriosi e registravano eventi inquietanti. Mario Tamponi