Mario Tamponi Zurück
Il miracolo della morte nella vita Dal diario di una guarigione Un tumore aggressivo e inatteso sembrava accorciarmi drasticamente la vita a dispetto del mio vigore fisico e dei tanti progetti in cantiere. Me l’ha diagnosticato un medico con la voce perentoria di un angelo d’apocalisse… e invece è stata proprio quella sentenza ad indurmi ad amare la vita ben più del vigore e dei progetti. Mai prima aveva gustato tanto il rinascere quotidiano del sole e le sue radiose galoppate nel cielo, la natura briosa sul balcone di casa col saltellare frenetico dei passeri e il concorso canoro dei merli, la vista dal terzo piano filtrata dalle chiome degli alberi sul traffico lungo il Ku’damm, la gente variamente affaccendata sui marciapiedi, le stelle decimate dai lampioni della città ma col potere discreto di fascino e profondità. Mai prima avevo sentito così vivo il calore dei familiari e degli amici attorno alla mia fragilità, l’armonia universale con la tenerezza di un abbraccio. Mai prima la vita mi era apparsa così rassicurante, non come qualcosa di scontato da misurare e programmare per chissà quale futuro. Il futuro, quello vero, mi si era fatto vicino e osavo quasi toccarlo. A conclusione di una radioterapia lunga e intensa la solita voce, quella dell’apocalisse, mi ha annunciato un giorno la guarigione come inno sussurato alla medicina e alla scienza. Passando d’un colpo dalla certezza della fine alla prospettiva di una sopravvivenza da riprogrammare mi ha colto l’imbarazzo del graziato senza ragione. Nel frattempoin avevo capito che vivere non significa vegetare e la salute non merita il vertice dei valori; il di più l’avevo scoperto nell’opportunità di rinascere. Per questa la medicina può ben poco; è persino sviante se da sola presume di prometterci senso e appagamento. La salute che si ristabilisce rinvia solo il problema. La scienza è incapace di miracoli, la vita ne è piena. Il miracolo più vero è capire che in ognuno di noi vita e morte coesistono e si illuminano a vicenda. I pellegrinaggi della speranza a Lourdes o in altri santuari li deformiamo quando li riduciamo a implorazioni di guarigione da malattie incurabili. La guarigione come tregua è auspicabile, ma decisivo è scoprire la vita nella morte, la morte nella vita. In questa luce dovremmo amare anche i santuari dei pellegrinaggi, ma a cominciare da quello nell’intimo che ci accompagna col respiro anche senza viaggiare. Lasciando la clinica mi sono sentito rinascere grazie alla compassione verso quelli che continuano a soggiornarvi e i tanti che vi entrano come per sorteggio da lotteria. Mi porto impresse le loro facce contorte da sofferenza, indignazione e ostinazione, e che ora non ho il diritto nè la voglia di rimuovere. Una volta il Calvario del Venerdì Santo mi appariva come una rappresentazione troppo cruenta per essere vera… ora capisco che se così non fosse non potrebbe contenere tutto il dolore degli altri e il nostro che reclama conforto. Di fronte al loro lamento un certo compiaciuto buonismo può essere ipocrisia filantropica; solo la vocazione ad alleviare col nostro il dolore degli altri è la radice di ogni umanesimo, della convivenza contro ogni disperazione. Si soffre nel corpo e nella psiche, soprattutto per il male che l’umanità si provoca con la reciproca indifferenza e sopraffazione, con la manìa di aggredire invece di ricercarsi negli occhi degli altri. Troppo spesso dimentichiamo che frantumando lo specchio disperdiamo l’immagine che ci contiene e interpreta… e tutto svanisce Da giovane studente uscendo dopo un mese di servizio volontario dal Cottolengo di Torino, l’immenso ospedale-ricovero per poveri, e ritrovando la città chiassosa mi sono chiesto se più vera non fosse la società che avevo appena lasciato con bambini deformi, giovani sfiduciati, degenti permanenti con voragini da decubito, tossicodipendenti svaniti, epilettici bavosi, dementi senza passato, anziani dimenticati. Oggi penso che la reale comunità umana sia inscindibilmente dentro e fuori; folle è separare i presunti fortunati e sfortunati in campi contrapposti da recinti spinati. Un vero santuario non può essere roccaforte nel deserto; del mondo dev’essere cuore e polmoni, motore di socialità, testimone di trascendenza. Negli ospedali ci sono martiri che pregano senza saperlo; senza formule convenzionali invocano la sopravvivenza di tutti. Voglia il cielo che nessuno debba varcare il confine della sopportazione. E nei casi estremi come giudicare dal tepore della nostra bambagia la resa di chi si scontra col muro? Chi non amerebbe la vita anche con un solo spiraglio di esserne riaccarezzato? Il Cristo che con la lacerazione della carne ha sofferto e soffre l’abbandono degli amici e del Padre non potrà condannarli. Da tempo ci siamo abituati a distinguere professioni nobili da occupazioni plebee; nobili sarebbero quelle di ricercatori ed economisti, docenti eruditi e programmatori di futuro, leader politici e star con milioni di fans. Incalcolabile è invece il ruolo di un modesto infermiere che con sorrisi non finti può trasmettere attorno calore, la gratitudine dell’esistere anche se fragile. Ogni sorriso è contagioso e rivoluzionario. È il massimo che possa donare chi ha il privilegio di operare nella dimensione del quotidiano. L’incontro con Polifemo. Della radioterapia porto vivo il ricordo del robot col groviglio di figure attorcigliate che sovrasta, scruta e irradia. Per me non era una macchina, erano persone dotate di testa e cuore: al centro il capoccione di Polifemo e attorno alcune delle sue creature in movimenti sinuosi. Il mitico ciclope non era il mostro primitivo che si sarebbe cibato di carne umana secondo la diffamazione di Ulisse per la cattiva coscienza di averlo accecato con un palo rovente. Non era neppure il chiacchierone conforme al suo nome. Per me era un saggio che dosava gli sguardi per garantirmi di volere il mio bene. A distanza ravvicinata il suo grande occhio l’ho scoperto profondo e ceruleo come il mare. Quel gigante era nientemeno che il primogenito di Poseidone dal tridente dorato, uno dei dodici abitanti dell’Olimpo, figlio di Crono e fratello maggiore di Zeus: quando le tre divinità decisero di dividere il mondo in altrettanti regni, a Zeus toccò il cielo, all’Ade l’oltretomba sotterranea e a Poseidone appunto il mare. Nel mare Ulisse, dopo il misfatto contro Polifemo, dovette peregrinare per anni e anni tra bufere di vento prima di approdare alla sua Itaca. È stata la magnanima punizione di Poseidone: con un carattere un tantino più irascibile avrebbe potuto saettarlo all’istante per sfamarne gli squali. Polifemo mi proteggeva con le sue splendide ninfe, nate dalle onde: facile riconoscervi Aretusa dal sorriso carezzevole, Lara dalle smorfiette allusorie, Nausica e tante altre che nelle successive sedute terapeutiche mi riproponevo di strappare alla mente di Omero. Lo scricchiolio dei loro guizzi, quelli dei bracci del robot, mi risuona ancora nell’anima come l’acqua salmastra che si infrange sulla scogliera con la cadenza del cuore. Il mio dialogo con Polifemo e le sue ninfe si protraeva in ogni trattamento oltre i tempi misurabili. E quando la sala attorno al mio lettino riprendeva a popolarsi di assistenti e infermieri, prima scappati per sottrarsi alle radiazioni, io mi affrettavo a congedarmi con gesti cifrati soprattutto dal Ciclope; nella sua riservatezza era la mente e il centro dell’intero ospedale, con scantinati tortuosi, laboratori e una miriade di operatori in camice bianco. Lui e le sue ninfe non si sono rinchiusi nel passato mitico che li ha generati, mi hanno raggiunto nel bisogno. Il loro ieri e il mio oggi sono contemporanei nella magia dell’ubiquità temporale. Quando l’umanità ha cominciato a concepirli li ha disegnati con tratti poetici. Seguendo il flusso dei secoli essi hanno saputo accamparsi nelle nostre città tecnologiche come angeli custodi. Per sapere di esistere forse si aspettano un briciolo di amicizia da parte dei tanti beneficiati, che della gratitudine rischiano di perdere il senso e il piacere. Mario Tamponi