Mario Tamponi Zurück
Francesco, capolavoro di Dio Le lacrime dei denigratori forse arriveranno troppo tardi …e saranno di coccodrillo. di Mario Tamponi
Integralisti e curiali Sgomenta la cattiveria con cui papa Francesco viene spesso attaccato. Avviene in certi ambienti laici insensibili alla sua suggestiva dimensione umana del sacro. Avviene anche all’interno della Chiesa da parte di quanti, reputandosi custodi della verità, vedrebbero nelle sue dichiarazioni e nel suo operato sintomi di apostasia e di decadenza. Per non parlare di collaboratori di curia che, invece di sostenerlo, gli tendono agguati e tranelli. Impossibile non pensare ai metodi analoghi dei „cultori della legge“ di una volta, gli scribi e i farisei, che aggredivano l‘inedito Messia anche col sostegno di un popolo manipolato; è l’unica categoria di persone che Gesù, mansueto con tutti, respinge come „vipere e sepolcri imbiancati“. Condanna sacrosanta, anche se modestia ci suggerisce di non farla propria per quel tanto di farisaico che forse dovremmo scoprire anche in noi, nelle nostre discriminazioni mentali sotto la cenere! Certi denigratori dell’attuale pontefice pare non riconoscano lo Spirito Santo, dato che dovrebbe essere stato proprio lo Spirito Santo ad eleggere Francesco tramite i cardinali riuniti in conclave. Un noto cattolico superpraticante e scrittore di libri edificanti sostiene addirittura che l’elezione di Bergoglio non sarebbe valida perchè avvenuta al terzo scrutinio di un fatidico pomeriggio, mentre di scrutini i regolamenti del conclave ne prevederebbero solo due la mattina e due la sera dello stesso giorno. Quel pio azzeccagarbugli pare non creda neppure nella funzione normativa della tradizione, che della Chiesa fissa buona parte del patrimonio teologico, liturgico e istituzionale. Se al candidato Bergoglio fosse mancata la maggioranza, al collegio cardinalizio non sarebbe stato difficile rivedere la procedura seduta stante o comunque prima dell’investitura.  Clericalismo e rivoluzione Per capire i moventi consapevoli e inconsci di questa resistenza talvolta agguerrita contro papa Francesco bisognerebbe considerare le sue innovazioni epocali, scomode come lo è il Vangelo, minacciose per fruitori di privilegi e di usanze ossidate da pigrizia mentale. Francesco dice di volere una Chiesa meno esteriore e bigotta, meno arrogante e severa, più umile e aperta, più in sintonia col Dio che ama e perdona, e col Cristo che, mostrandoci la nostra fragilità, ci dona con la croce la capacità di amare. Francesco non vuole una Chiesa per guardoni da platea o salotto, ma ne auspica una d‘avanguardia, di protagonisti che sappiano mettersi in gioco per tradurre la seduzione del Vangelo in abnegazione e solidarietà con i fratelli vicini e lontani, soprattutto con i più segnati dal bisogno, dall’emarginazione e dal dolore. Papa Francesco considera il clericalismo di potere e da casta come uno dei grandi mali della Chiesa – e della società! – ed esorta il clero al disarmo e al regalo gratuito di quello che gratuitamente riceve. In vescovi e cardinali condanna la ricorrente deriva principesca, ricordando che il rosso che indossano non è colore di sfarzo, ma di servizio in prima linea e di testimonianza fino al martirio. Cerca di dissuadere sacerdoti e monaci dall’uso commerciale di istituti e immobili ecclesiastici e ritiene comunque doveroso il pagamento delle imposte per attività non di culto. Parecchi prelati paventano che di questo passo, cioè con minori concessioni mondane di agio e prestigio, parrocchie e monasteri possano assottigliarsi di risorse e vocazioni. Ma per Francesco la mondanità non è valore e misura per le vere sfide dell’immaginazione e del coraggio secondo il Vangelo. La Chiesa cattolica, anche se di gran lunga la più planetaria e capillare delle istituzioni, nella misura ipotetica in cui si preoccupasse più dell’efficienza organizzativa e dell‘influsso politico che dell’annuncio controcorrente dell’amore e della croce, sotto il profilo cristiano sarebbe inutile, fallimentare. Come in un sogno ad occhi aperti Francesco auspica una „Chiesa povera per i poveri“, una comunità spirituale di volontari a tempo pieno, possibilmente con la rinuncia – come lui e i poveri fanno – ad andare in vacanza e in pensione. Francesco pensa che consacrati di ogni rango potrebbero spontaneamente ridursi al necessario stipendi e sussidi sull’esempio di Gesù che non aveva dimora „dove posare il capo“ (Lc 9, 58). La sua scelta personale di abitare a Santa Marta in un modesto appartamentino con mensa comune è emblematica. Lo fa per convinzione,  come già prima da vescovo a Buenos Aires; ora da papa anche per proporre un modello ai confratelli in porpora e senza, augurandosi che molti vogliano imitarlo. Col suo potere giuridicamente assoluto potrebbe imporre sfratti e modestia, e prescrivere più simbolicamente croci di legno o di latta, come la sua, a chi sul petto continua a ostentarne una in oro massiccio. Ma all‘autoritarismo preferisce l’esempio discreto per ricordare che la sequela di Cristo non è professione e carriera, ma libera scelta, chiamata e ascolto della voce intima che ispira ogni cristiano a prescindere dalle diverse funzioni istituzionali. Francesco è consapevole della propria e altrui fragilità e così non cede neppure a scandalismi e catastrofismi sul presente e sul futuro della Chiesa e della sua gerarchia. Del resto tra i primi apostoli, dopo un triennio di lezioni di intensa spiritualità col Maestro, i più gli voltano le spalle e scappano di fronte all’incombente sconfitta della croce; l‘amministratore lo tradisce per pochi denari; il designato alla guida della futura comunità lo rinnega nel panico; e quasi tutti dopo la resurrezione dimostrano di non averne ancora capito il senso chiedendogli: „Signore, è questo il tempo in cui tu ristabilirai il regno d’Israele?“ (At 1, 6). Francesco sa che nella Chiesa, proprio sulle ricorrenti infedeltà e incomprensioni umane, si compie e si rivela il miracolo della presenza del Cristo, il prevalere della trascendenza sull’immanenza. La trascendenza ispira e plasma innumerevoli capolavori, da Francesco d’Assisi a Madre Teresa di Calcutta, nella molteplicità di storie e culture, di caratteri e scelte. Sostiene missionari che sfidano l’ignoto geografico per l‘annuncio apparentemente impossibile del Dio crocifisso; e conforta quanti ne condividono il martirio. Non ci sono poi solo modelli di integritá vistosa e celebrata, ma anche miriadi di altruisti silenziosi „della porta accanto“. È la Chiesa dell’amore vissuto nella dedizione e invocato anche nelle cattedrali delle città e delle campagne, nei santuari dei deserti e delle vette rocciose, nelle abbazie della meditazione e della bellezza, nelle certose della contemplazione e del silenzio oltre ogni schiamazzo. Più di qualsiasi costituzione o patto giuridico, l’amore è anche la sorgente, spesso lontana, della vera socialità in ogni Stato civile, l’istanza etica contro corruzione e violenza. La presunta lontananza dall‘amore conferisce all’etica quello che gratuitamente riceve. In vescovi e cardinali condanna la ricorrente deriva principesca, ricordando che il rosso che indossano non è colore di sfarzo, ma di servizio in prima linea e di testimonianza fino al martirio. Cerca di dissuadere sacerdoti e monaci dall’uso commerciale di istituti e immobili ecclesiastici e ritiene comunque doveroso il pagamento delle imposte per attività non di culto. Parecchi prelati paventano che di questo passo, cioè con minori concessioni mondane di agio e prestigio, parrocchie e monasteri possano assottigliarsi di risorse e vocazioni. Ma per Francesco la mondanità non è valore e misura per le vere sfide dell’immaginazione e del coraggio secondo il Vangelo. La Chiesa cattolica, anche se di gran lunga la più planetaria e capillare delle istituzioni, nella misura ipotetica in cui si preoccupasse più dell’efficienza organizzativa e dell‘influsso politico che dell’annuncio controcorrente dell’amore e della croce, sotto il profilo cristiano sarebbe inutile, fallimentare. Come in un sogno ad occhi aperti Francesco auspica una „Chiesa povera per i poveri“, una comunità spirituale di volontari a tempo pieno, possibilmente con la rinuncia – come lui e i poveri fanno – ad andare in vacanza e in pensione. Francesco pensa che consacrati di ogni rango potrebbero spontaneamente ridursi al necessario stipendi e sussidi sull’esempio di Gesù che non aveva dimora „dove posare il capo“ (Lc 9, 58). La sua scelta personale di abitare a Santa Marta in un modesto appartamentino con mensa comune è emblematica. Lo fa per convinzione,  come già prima da vescovo a Buenos Aires; ora da papa anche per proporre un modello ai confratelli in porpora e senza, augurandosi che molti vogliano imitarlo. Col suo potere giuridicamente assoluto potrebbe imporre sfratti e modestia, e prescrivere più simbolicamente croci di legno o di latta, come la sua, a chi sul petto continua a ostentarne una in oro massiccio. Ma all‘autoritarismo preferisce l’esempio discreto per ricordare che la sequela di Cristo non è professione e carriera, ma libera scelta, chiamata e ascolto della voce intima che ispira ogni cristiano a prescindere dalle diverse funzioni istituzionali. Francesco è consapevole della propria e altrui fragilità e così non cede neppure a scandalismi e catastrofismi sul presente e sul futuro della Chiesa e della sua gerarchia. Del resto tra i primi apostoli, dopo un triennio di lezioni di intensa spiritualità col Maestro, i più gli voltano le spalle e scappano di fronte all’incombente sconfitta della croce; l‘amministratore lo tradisce per pochi denari; il designato alla guida della futura comunità lo rinnega nel panico; e quasi tutti dopo la resurrezione dimostrano di non averne ancora capito il senso chiedendogli: „Signore, è questo il tempo in cui tu ristabilirai il regno d’Israele?“ (At 1, 6). Francesco sa che nella Chiesa, proprio sulle ricorrenti infedeltà e incomprensioni umane, si compie e si rivela il miracolo della presenza del Cristo, il prevalere della trascendenza sull’immanenza. La trascendenza ispira e plasma innumerevoli capolavori, da Francesco d’Assisi a Madre Teresa di Calcutta, nella molteplicità di storie e culture, di caratteri e scelte. Sostiene missionari che sfidano l’ignoto geografico per l‘annuncio apparentemente impossibile del Dio crocifisso; e conforta quanti ne condividono il martirio. Non ci sono poi solo modelli di integritá vistosa e celebrata, ma anche miriadi di altruisti silenziosi „della porta accanto“. È la Chiesa dell’amore vissuto nella dedizione e invocato anche nelle cattedrali delle città e delle campagne, nei santuari dei deserti e delle vette rocciose, nelle abbazie della meditazione e della bellezza, nelle certose della contemplazione e del silenzio oltre ogni schiamazzo. Più di qualsiasi costituzione o patto giuridico, l’amore è anche la sorgente, spesso lontana, della vera socialità in ogni Stato civile, l’istanza etica contro corruzione e violenza. La presunta lontananza dall‘amore conferisce all’etica sociale una veste di laicità; in effetti laico e religioso, se considerati nella loro autentica ispirazione, sono espressioni congiunte della medesima convivenza solidale. Sembra non possano esistere continenti e paesi laici senza santuari dell’amore e della trascendenza. Talvolta bruciati e demoliti dall’ateismo di stato, rinascono più numerosi e vivi anche per rifondare una statalità coesa subito dopo il crollo inevitabile di regimi soltanto ideologici. A distanza ravvicinata abbiamo potuto osservarlo con l‘implosione dell‘Unione Sovietica del materialismo dialettico.  Povertà e mercificazione Per relativizzare la povertà vissuta e proposta dal „papa argentino“ parecchi la classificano come pecularietà sudamericana. Vero è invece che essa parla la lingua del Vangelo. Si tratta di povertà materiale, come uso moderato e funzionale di beni e tangibile solidarietà con moltitudini che nel mondo mancano del necessario; ma che si combina simbolicamente con quella immateriale del Discorso della montagna. La beatitudine della „povertà in spirito“ significa che nell’uomo rinato nel Cristo l’essere conta più dell’avere, l’esistere più dell’apparire, la libertà interiore più del dominio. Con l’amore al centro del tutto! Amore come dono di Dio e come risposta dovuta al donatore – nel prossimo – senza mezze misure: „Nessuno può servire due padroni perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.” (Mt 6, 24). Papa Francesco scomunica di fatto la mercificazione della fede ad ogni livello: quella delle grandi e oscure speculazioni finanziarie, quella della compiacenza con i potenti in cambio di tacita protezione… fino a quella dell‘affarismo spicciolo e banale. Certamente egli non sa – perchè pare che nessuno glielo dica – che sui banconi all’ingresso di qualche chiesa frequentata da turisti e pellegrini si offrono a pagamento boccette di acqua benedetta. Si distribuiscono anche buste prestampate perchè ci si possano introdurre le offerte prescritte con intenzioni personali per le messe. Davanti ad una immagine in ogni altare laterale e in quello centrale sono disponibili tantissimi ceri da accendere secondo un preciso tariffario, sproporzionato rispetto al relativo valore commerciale. In vendita naturalmente ci sono anche tantissimi oggetti e opuscoli di dubbia devozione… ma ci si guarda bene dall’esporre e diffondere nello stesso modo, ad esempio, lettere ed encicliche del papa, se non altro per condividerne lo spirito e sostenerne l‘impegno. Non c’è da meravigliarsi se anche l’ultimo importante appello pontificio di etica socio-ecologica „Laudato sì“ sia stato letto da una esigua minoranza di fedeli, così che i più, quando ne parlano, lo fanno per sentito dire. Ancora. Se un privato volesse riportare – alla lettera, anche senza commenti personali – un brano della Bibbia in una propria pubblicazione o video non potrebbe usare la versione ufficiale sotto copyright perchè la CEI „non ne concede l’autorizzazione“. La concede solo a „enti“ o „case editrici“, probabilmente con adeguato compenso o contropartita. Eppure l’invito di Gesù a diffondere la Parola si rivolge a tutti e in forma assillante: „Quello che ascoltate sottovoce gridatelo dai tetti“ (Mt 10, 27). „Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù“, ammonisce San Paolo, „annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno“ (2 Tm 4, 1-2).  Amore non è empatia o buonismo Per Francesco la chiamata cristiana è vocazione all’amore, e come tale è radicale. Non è una semplice correzione dell’istinto naturale e delle abitudini mondane; è invece inversione di tendenza, conversione esistenziale, ontologica. „Senza l’amore“, predica San Paolo, „io sono nulla“ (1 Cor 13, 2), cioè non esisto. L‘amore è l‘opposto di ogni relazione d’interesse. Gli interessi promuovono la reciprocità commerciale, seguono il calcolo delle convenienze: si dà per riceverne almeno l‘equivalente. Di questa logica l’amore è il rovesciamento: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti.” (Lc 14, 12-14). Ciò corrisponde all’imperativo evangelico: “Amate i vostri nemici… affinchè siate figli del Padre vostro che è nei cieli… Se infatti amate quelli che vi amano quale merito ne avete? Non fanno altrettanto anche i pagani?” (Mt 5, 44-46). L’amore non è buonismo, filantropia praticata per esserne gratificati dal mondo e dal proprio narcisismo; non è neppure empatia naturale grazie ai neuroni-specchio. L’empatia è simile alla simpatia che – come l’antipatia – discrimina e all’occasione diventa belligerante. In questa dimensione a senso unico non si raggiunge mai l’altro da sè, ma si resta dentro la condizione di monade chiusa, di isolamento e non-senso, di angoscia da suicidio, come rileva Camus (Mito di Sisifo). Dell’uomo l’amore è l’unica salvezza.  E l’amore, non potendo essere espressione dell’evoluzione naturale, competitiva e selettiva, è dono dall’alto. È folgore che attiva la nostra relazionalità costitutiva verso la trascendenza: l’uomo da istinto individualistico si trascende in coscienza dell’altro, e negli altri ritrova la grande famiglia di appartenenza, che dà senso al tutto e rende possibile la libertà progettuale, l’estasi dell’esistere. Francesco questo lo sa e dovremmo essergli riconoscenti di ricordarcelo spesso con le parole e la coerenza. Egli ci mette anche in guardia di fronte alla mondanità sempre in agguato che inquina la percezione dell’altro, e con ciò la genuinità dei nostri sentimenti e aspirazioni. Il paradiso e l’inferno, comunque li si vogliano concepire, rientrano nell‘immaginario religioso. Ma un pietismo teso ad accumulare meriti per conquistarsi il paradiso o sfuggire all’inferno non è cristiano; è simile all‘investimento commerciale, alla copertura di una polizza assicurativa. Il paradiso e l’inferno, generalmente raffigurati in simboli come quelli danteschi, sono verosimili solo nello spazio-tempo dell’esistere relazionale, nel presente di un amore aperto o di un egocentrismo asfissiante. Ancora. Pensare al proprio aldilà, comunque lo si voglia intendere, senza condividerne l‘anelito degli altri, quasi in spirito di competizione, non è cristiano: contrasta col sacrificio del Cristo per la salvezza di tutti. Semmai il destino di ognuno dipende – nella croce del Cristo – anche dagli altri in ospedali, in carceri e in innumerevoli condizioni di miseria e sofferenza – ciò che nell’eucaristia ha la sua espressione sacramentale. Ancora. Credersi giusti e virtuosi perchè si osservano giustizia e virtù non è cristiano. È semmai presunzione farisaica che compromette e scardina tutto: misconoscendo la propria caducità e riconoscendosi autonomi si professa l’inutilità di Dio. È ateismo di fatto, ancor più compromettente di quello soltanto dichiarato. L’idea di un „santo presuntuoso“ sarebbe una tragica contraddizione concettuale. Per capirlo basta richiamare l’immagine evangelica della vite e dei tralci: „Senza di me non potete far niente!“ (Gv 15, 1-7). Da abbinare a quella dell’infanzia ritrovata: „Se non vi convertite e non diventate come i bambini non entrerete nel regno dei cieli“ (Mt 18, 3).  Profughi e trafficanti Su papa Francesco piovono critiche anche per la sua „illimitata“ solidarietà verso i profughi delle attuali immigrazioni di massa dall’Africa verso l’Europa e altrove. Lo si accusa di irresponsabilità perchè non terrebbe conto dei problemi di integrazione e sicurezza, delle contrastanti identità culturali. Si tratta di critiche infondate con la confusione, spesso in malafede, dei diversi ruoli istituzionali della politica e della sfera etico-religiosa. Vero è che l’accoglienza dei perseguitati e degli affamati da parte dei paesi benestanti è imperativo evangelico. È imperativo anche di giustizia per le nazioni che nel passato, remoto e prossimo, hanno costruito parte del proprio benessere sulla colonizzazione e lo sfruttamento di interi continenti. Francesco esorta (e come non farlo!) a salvare la vita dei disperati gettati in mare su fragili gommoni, ma con altrettanta frequenza si scaglia contro la tratta di esseri umani, in questo caso contro i trafficanti che con ingenti profitti e cinica violenza organizzano e gestiscono lo strappo di intere comunità dai loro paesi d’origine, il brutale trasporto attraverso il deserto, la traversata avventurosa e l’approdo di fortuna, il successivo sfruttamento occupazionale, la dipendenza a vita per nullatenenza. L‘appello di Francesco si rivolge alle coscienze. Ma sarebbe compito della politica intervenire con forze militari e di polizia per impedire che quei disgraziati diventino bottino di mafie e banditi. Tutti gli autori di questo scempio sistematico andrebbero stanati, disarmati e perseguiti per i loro crimini contro l’umanità. Ciò che purtroppo non avviene. Francesco auspica che i paesi europei accolgano i veri profughi (senza infiltrati) nel numero del possibile, gestiscano i flussi senza subirli. Per bloccare l’esodo mediante la creazione di opportunità di sopravvivenza in patria, l’Europa avrebbe ancor prima il sacrosanto dovere di concordare con i paesi di provenienza rapporti di trasparente cooperazione per lo sviluppo, con l’impiego delle risorse necessarie magari da sottrarre alle spese militari fuori controllo. Ciò che purtroppo non avviene. L’Unione Europea dovrebbe considerare come propri i confini dei paesi membri di approdo, assumersene la gestione mediante strutture adeguate per il primo soccorso, per l’identificazione di tutti contro illegalità e clandestinità, per la loro ripartizione sull’intero territorio europeo secondo le richieste e le reali disponibilità, per i rimpatri in mancanza di requisiti. Per essere umana l’accoglienza dovrebbe poter offrire alloggio, integrazione linguistica, addestramento lavorativo, assistenza. L’accoglienza senza regole, cioè l’abbandono dei profughi al vagabondaggio e alla criminalità, come spesso avviene, è il contrario della solidarietà. Anche questo Francesco lo pensa e lo denuncia.  Periferie del mondo C’è chi considera riduttivo il programma dei viaggi ufficiali del „papa argentino“ rispetto, ad esempio, a quello variegato di Giovanni Paolo II. In effetti, più che visitare nazioni di forte tradizione cristiana per bagni di folla, papa Francesco preferisce favorire innanzitutto convivenza, dialogo e sviluppo raggiungendo le „periferie del mondo“, paesi di guerra e indigenza, di dittature e migrazioni, di minoranze cristiane esposte alla violenza. All’inizio si è recato eccezionalmente negli Stati Uniti per un confronto preliminare col neocapitalismo liberista che nel mondo alimenta disuguaglianze e nuove forme di colonialimo. Ha denunciato l’ipocrisia dei fautori della „terza guerra mondiale a pezzi“, il fiorente commercio delle armi, terrorismi e intolleranze, la pena capitale e altro. Allora, sembrando quasi innocuo, è stato acclamato come popstar e leader carismatico con la facoltà di parlare senza essere ascoltato. Ma poi, a distanza non sospetta, certi poteri indefiniti e loro congiunti si sono fatti sentire con una svolta nei sistemi globali di comunicazione e propaganda per sviare e delegittimare, per offrire megafoni a scandali all’interno della Chiesa, al dissenso tra i vescovi nordamericani, a presunte eresie pontificie e minacce di scismi, all‘istinto di gregge e di branco della messinscena mediatica, dove anche gli insulti ad arte di pochi si allargano a macchia d’olio nella volgarità. Si sono espressi anche esperti della finanza internazionale lamentando in Francesco pressappochismo rispetto ai meccanismi complessi delle società avanzate, anacronistico filocomunismo. Di per sè papa Francesco si è limitato ad additare fattori attivi che, pur richiamandosi ai valori cristiani della dignità della persona e del diritto di ogni popolo all’emancipazione, di fatto generano voragini tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, la concentrazione del potere nelle mani di alcune mosche bianche, la crisi della democrazia mondiale. E continua a farlo senza troppe sottigliezze, sull’esempio di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio e rovescia i tavoli dei cambiamonete (Mt 21, 12, Mc 11, 15).  Francesco e Benedetto Ci sono poi degli „intellettuali“, religiosi e laici, che per offuscare l’immagine di Francesco gli contrappongono la figura di Benedetto: e così un pastore argentino con le scarpe vecchie e „l‘odore delle pecore“ si troverebbe sovrastato da un consumato professore tedesco di filosofia e teologia. Sotto questo abbaglio uno dei detrattori, un giornalista stranamente applaudito, insinua che con Francesco la Chiesa si sarebbe teologicamente impoverita fino a non avere quasi „più nulla da insegnare“. Valutazioni banali come questa prendono piede anche in certe trasmissioni televisive frequentate dai soliti „opinionisti“ ed esibizionisti, poveri di argomenti ma avidi di popolarità. Vero è che Benedetto è un teologo dogmatico, mentre Francesco è un biblico, ma che come tale sarebbe ingenuo considerare meno profondo e colto, meno dotato di arguzia e di logica razionale. Il messaggio del Nuovo Testamento, quello dei Vangeli seguiti dalle lettere di Paolo e degli apostoli, è centrale ed è ben più denso dei sistemi teologici che nel corso della storia vi si sovrappongono quasi come corpi autonomi mediante l‘uso di filosofie spesso contrastanti, certamente affascinanti. Nell’ottica cristiana le costruzioni metafisiche dovrebbero contare meno dell’ispiratore annuncio di salvezza o non contare affatto quando lo perdono di vista. Il Vangelo si esprime nel simbolismo del vivere e dell’esistere, mentre la teologia teoretica in quello della ragione speculativa. Il primo è diretto e universale, l’altro è mediato da categorie concettuali di epoche diverse, che col passare dei secoli tendono all‘anacronismo. Si pensi alla teologia medievale e tomistica che si articola soprattutto nella metafisica di Aristotele e alternativamente in quella di Platone. Di quella teologia che ne sarà oggi con la crisi o „morte“ della stessa metafisica grazie all’affermarsi, ad esempio, della fenomenologia e della filosofia del linguaggio? Per i cultori della teologia classica non sarà facile rompere con gli schemi consolidati del proprio passato per ricongiungersi con l’originario annuncio di salvezza e rivestirlo di nuova filosofia.  Veritas in caritate Benedetto riassume la propria teologia nel motto „caritas in veritate“ (l’amore nella verità); Francesco sigla invece l’intero messaggio biblico, neotestamentario, col motto „veritas in caritate“ (la verità nell’amore). Ciò vuol dire che secondo Benedetto l’amore riceve senso e autenticità dalla sua elaborazione teologica su base metafisica, cioè dogmatica. Per Francesco invece la verità si illumina nell’amore fino all‘identificazione. Questo secondo percorso sembra più credibile perchè la verità cristiana, più che dottrina concettuale, è vita, vita di relazione. „Io sono Verità e Vita“ afferma Gesù per evidenziare in lui l‘identità di Verità e Vita, cioè per significare che il suo essere Verità è l‘Amore che ci si rivela. L’amore umano è il rapporto col prossimo all’interno del rapporto con Dio come condizione di possibilità. Dove la dimensione verticale e quella orizzontale non sono solo simultanee, ma reciprocamente intrecciate. Nel nostro amore del prossimo il Cristo, nella sua trascendenza, è la nostra profonda identità personale. Parafrasando Agostino si potrebbe dire che la verità di chi ama è ciò che l’amore gli ispira. Da tanti critici nominalisti questa spiritualità, pienamente condivisa da Francesco, viene tacciata di immanentismo. E invece è proprio in questa ottica che si esalta l’assoluta, ineffabile trascendenza di Dio, come nessuna metafisica potrebbe fare. Per Francesco l’uomo può parlare autenticamente solo del Dio che gli si rivela nel rapporto personale, nell’amore, non del Dio che la metafisica crede di poter costruire come entità assoluta, ma separata alla stregua di un oggetto. Atei professionisti propagandano a loro presunto vantaggio i dubbi di fede lamentati da alcuni mistici, come da Madre Teresa di Calcutta negli ultimi anni mentre continuava a confortare i lebbrosi moribondi col sorriso della condivisione. In realtà, se si persevera nell’amore del prossimo, la cosiddetta „notte della fede“ porta lo stesso amore del prossimo (e di Dio) al massimo livello. Amare significa anche credere; e così l’amore del prossimo senza il sostegno della fede diventa estremo… e con ciò diventa impercettibilmente estrema anche la stessa fede. Questo rilievo è in sintonia con l’amore dei „nemici“ raccomandato dal Vangelo: l’amore non corrisposto è amore totale. Anche l’amore del Cristo per l’umanità „si compie“ (Gv 19, 30) proprio nel momento in cui egli sulla croce si sente „abbandonato dal Padre“ (Mt 27, 46), come prima dagli amici. Nel Cristo la croce e l’abbandono sono un atto di amore e di fede (nell‘uomo e nel Padre) così intenso da essere rigenerativo, redentivo. Questo per ribadire che l’amore è fede; e la fede è conoscenza superiore, cioè non per evidenza o logica razionale, ma per amore. „Veritas in caritate“, quella appunto testimoniata da Francesco.  Cristiani anonimi L’uomo speculativo è inadeguato alla conoscenza di Dio – lo sostiene anche la filosofia critica di Kant. L‘uomo può coglierlo solo a misura d’uomo, cioè nell‘amore del prossimo e nella dimensione umana del Cristo. Se l’uomo non può conoscere Dio speculativamente, non può neppure esprimerlo direttamente, ma solo per simboli e metafore, cioè nelle diverse, relative configurazioni storico-linguistiche e al di là di ogni presunzione di ortodossia da parte dell‘uno rispetto all‘altro. Il metro della verità su Dio può consistere solo nell’amore, che è dono del Padre di tutti e parla le lingue di tutti, ma comunicanti nella loro diversità come nell‘evento di Pentecoste. In questo contesto diventa difficile capire la „crociata“ di Benedetto contro il cosiddetto „relativismo“ moderno. Il gesuita Karl Rahner annoverava opportunamente cristiani professi e cristiani anonimi, attribuendo agli uni e agli altri, a parità di amore, un‘analoga valenza eticoreligiosa. La „divinità“ del Cristo si esprime per noi proprio nella sua universalità, cioè nella sua presenza attiva nell’interiorità di ognuno, piuttosto che in qualsiasi mitica raffigurazione cosmica. Su questa linea papa Francesco ritiene che un non-credente preso e tormentato dal mistero della vita sia più autentico e vicino a Dio di un credente bigotto o abitudinario. Per la vera identità di ogni persona il cardinal Martini, confratello di Bergoglio, considerava quasi irrilevante la professione verbale di teismo o ateismo. Il vero ateo non è necessariamente chi nega a parole l’esistenza di Dio. Anzi rifiutare Dio in raffigurazioni caricaturali e in concezioni inadeguate può significare anelito religioso, bisogno e ricerca del sublime. È salutare rigettare rappresentazione svianti del sacro: Dio come fantasma antropomorfico, come limite dell‘uomo, come giudice cinico e geloso, come entità superflua o parassitaria, magari con la funzione di una droga (oppio) per giustificare la sopraffazione degli uni contro gli altri, oppure per consentire a molti la fuga nell’illusione di fantasia, la scelta della „via spaziosa“ e della „porta larga“ (Mt 7, 13-14) verso un paradiso facile ed egoistico. Chi si ritiene esentato dal verificare l’autenticità delle proprie convinzioni e la propria coerenza di vita, il proprio grado di umiltà e di curiosità, la gratitudine dell‘esistere e la responsabilità di progettarsi con audacia creativa non può essere un modello cristiano. Lo dice spesso anche papa Francesco, ma con l‘effetto di scandalizzare tanti fedeli illusi di poter ereditare e custodire fede e salvezza nel taschino della propria giacca, in uno stato di apatia, di passiva indifferenza. Secondo parecchi critici il dialogo di Francesco con altre religioni sarebbe troppo accondiscendente, quasi rinunciatario rispetto all’unicità del cristianesimo col suo credo di salvezza nel figlio di Dio, morto e risorto contro il male nel mondo. È indubbia la fedeltà di Francesco al proprio credo cattolico! Ma egli sa anche che l‘azione salvifica del Cristo – universale – si estende (in forma anonima ma reale, direbbe Rahner) anche a uomini di altre civiltà, tradizioni e costumi. La Chiesa non deve sentirsi cerchia settaria di privilegiati in quanto dotati di un definito ed esclusivo sistema concettuale, ma è chiamata ad operare umilmente come „sale della terra“ e „luce del mondo“ (Mt 5,13-15) per la decodificazione della fratellanza universale.  Profeta riformatore Sarebbe opportuno continuare a smontare qualche altro preconcetto e malinteso su papa Francesco, ma il tempo tiranno ci suggerisce di rimandare il seguito ad altra occasione. Ai denigratori di buona volontà c’è da augurare intanto la capacità di cambiare ottica e metodo per scoprire in Francesco un riformatore singolare in tempi di profonda crisi etica e culturale, un profeta ispirato che sarebbe imperdonabile minimizzare o rimuovere. Prima di lui nella Chiesa, come nei governi del mondo, le istanze di rinnovamento partivano quasi sempre dalla base e nei casi più fortunati arrivavano al vertice solo attraverso molteplici resistenze. Con papa Francesco questo processo si è magicamente invertito. È lui, vertice, a scendere alla base dell’intero corpo della Chiesa (e di buona parte del mondo) per precederlo e ringiovanirlo. Perchè Francesco è uomo di Dio e le ispirazioni le attinge direttamente dal Vangelo, più rivoluzionario che mai rispetto alle inquietanti, gigantesche torri di Babele oggi in cantiere. È un ritorno allo spirito delle origini, al perchè fondamentale di ogni cosa. La semplicità di Francesco, che tutto riporta all’amore dell’uomo e alla misericordia di Dio, è ben altro che semplicismo o sentimentalismo, come certuni vorrebbero insinuare. La sua ontologia e religiosità sono sostenute da una rigorosa razionalità, all’interno però di un grande rapporto, che come ogni vero rapporto interpersonale oltrepassa gli schemi astratti e scarni della sola ragione. Il suo linguaggio è suggestivo e coinvolgente come lo sono le sfide di una grande promessa. Lo si può sentire all’Angelus della domenica, in udienze generali e altrove. Riproponendo le sublimi parabole del Cristo quasi si limita a scandirne le parole soppesandole come pietre, a farne sentire il suono penetrante. Ci si affianca nella vita come un buon sacerdote tradizionale, solidale. Ma un papa non dovrebbe fare il papa? Le funzioni di pontefice egli le svolge in altra sede con abnegazione francescana e
determinazione gesuitica; ma quando parla con la gente sa guardare negli occhi di ognuno, chiedendogli persino di raccomandarlo a Dio. Lo fa col contagioso candore di un bambino, profondamente convinto del fatto che la preghiera di ogni singolo può essere determinante. Difficile non accontentarlo, perchè venga confermato nella fede e nella voglia di sorridere. Comunque con la consapevolezza del fatto che, come ogni grande rivoluzione richiede, egli dovrà probabilmente continuare a portare una croce più pesante di altre, perchè „se il seme non muore non porta frutto“ (Gv 12, 24). Se fra le tante valutazioni qui espresse alcune dovessero risultare ingiuste o anche solo offensive, non resta che chiedere perdono. Resta però anche l’appello accorato ai denigratori di Francesco, soprattutto agli irriducibili, perchè le loro lacrime non arrivino troppo tardi… e non siano solo di coccodrillo. Mario Tamponi